
L’accordo commerciale annunciato il 27 luglio 2025 da Donald Trump e Ursula von der Leyen segna un momento di apparente distensione nei rapporti tra Stati Uniti e Unione Europea, ma lascia sul tavolo più ombre che certezze, si legge in un report di Coface.
Il compromesso raggiunto prevede un’aliquota tariffaria del 15% su circa il 70% delle esportazioni europee verso gli USA, una misura che, se da un lato evita il temuto raddoppio al 30% minacciato in precedenza da Washington, dall’altro rappresenta comunque un colpo significativo rispetto all’aliquota media dell’1,2% in vigore fino allo scorso anno. A rendere ancora più controverso l’accordo è l’impegno assunto dall’UE a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e ad acquistare beni energetici americani per 750 miliardi in tre anni, cifre mastodontiche che sollevano più di un dubbio sulla loro reale sostenibilità. Nonostante ciò, nel nuovo assetto multilaterale imposto dalla politica commerciale di Trump, l’Europa ottiene un trattamento relativamente migliore rispetto a molti altri partner commerciali: il Regno Unito resta l’eccezione più tutelata, mentre Paesi come Indonesia, Filippine e Vietnam dovranno affrontare dazi fino al 20%.
Ancora più dura la linea verso Stati senza accordo come Canada, Brasile e Corea del Sud, per i quali si profilano barriere fino al 50%.
Una strategia, quella americana, che conferma la preferenza dell’attuale amministrazione per accordi bilaterali basati sul rapporto di forza, a scapito della logica multilaterale su cui si fonda il sistema commerciale internazionale. Per l’industria europea, tuttavia, l’intesa si traduce in un terreno ancora più difficile da percorrere.
Settori chiave come quello siderurgico, già soggetto a dazi del 50%, vedono confermata la pressione; altri comparti strategici, come quello automobilistico, chimico e dei macchinari, si trovano a dover fronteggiare la nuova aliquota del 15%. Il tutto aggravato da un euro in rialzo del 13% sul dollaro, che rende i prodotti europei ancor meno competitivi sul mercato americano. “L’accordo commerciale raggiunto tra UE e Stati Uniti appare come una soluzione pragmatica per evitare un’escalation ancora più dannosa, ma lascia emergere un evidente squilibrio che incide negativamente sulla competitività delle imprese europee, in particolare nei settori strategici per l’Italia come automotive, siderurgico e chimico”, ha sottolineato Pietro Vargiu, Country manager di Coface Italia. “In questo contesto di maggiore pressione tariffaria e di volatilità valutaria, è cruciale per le aziende italiane implementare strategie mirate per gestire efficacemente i rischi commerciali e finanziari. Da parte nostra, come Coface, confermiamo il massimo impegno nell’affiancare le imprese con soluzioni personalizzate e strumenti avanzati”.
Le difficoltà per le aziende europee non si esauriscono nel contesto tariffario. Come rilevato da alcune indagini delle banche regionali della Federal Reserve, il 90% dei costi aggiuntivi derivanti dai dazi viene al momento assorbito da imprese e consumatori americani, ma per molte categorie di prodotti facilmente sostituibili, la pressione potrebbe presto ricadere sugli esportatori europei. Il margine di manovra per assorbire questi costi, in particolare nei comparti già sotto stress, appare ridotto.
La scelta dell’Unione Europea di accettare un compromesso così sfavorevole si spiega anche con le divisioni interne: da un lato, i grandi esportatori come Germania, Italia e Irlanda; dall’altro, i Paesi dell’Europa orientale più sensibili alle implicazioni geopolitiche di un deterioramento dei rapporti con gli USA. Il risultato è una strategia difensiva che preserva l’accesso al primo mercato extra-UE, ma al costo di un arretramento competitivo e di impegni finanziari difficili da onorare.